Preah Vihear, Cambogia
Un osservatore privilegiato, Francesco Bandarin (Unesco), scruta il Patrimonio mondiale
da Il Giornale dell'Arte numero 393, gennaio 2019
Mille anni fa, al tempo della massima estensione dell’Impero Khmer nel Sud-Est asiatico, i sovrani della grande città di Angkor decisero di costruire un importante santuario in una zona che per secoli era stata utilizzata da piccoli eremitaggi monastici, in cima a un promontorio roccioso che sovrasta, a 700 metri di quota, tutta la grande pianura cambogiana. Fondato nel IX secolo dal figlio del re Jayavarman II, il sito di Preah Vihear («monastero sacro» in lingua Khmer) venne gradualmente trasformato in un importante luogo di pellegrinaggio, dedicato alla divinità induista Shiva (e anche del dio Vishnu). Negli anni tra il 1005 e il 1050 d.C. il re Sûryavarman I fece costruire la parte centrale del santuario, che venne poi completato nel XII secolo da Suryavarman II.
Il sito, con la sua struttura perfettamente leggibile e la vista grandiosa sulla pianura sottostante, è una testimonianza eccezionale della capacità della cultura Khmer di modellare un vasto territorio e di adattare l’architettura al paesaggio. La sua posizione eccezionale, sulla vetta del promontorio, lo ha protetto nel corso dei secoli da devastazioni e distruzioni. Il santuario, tuttavia, corse un grave pericolo alla fine del XX secolo, quando divenne una base militare dei Khmer rossi, che lo occuparono fino alla fine del loro potere, nel 1997, lasciando poi all’interno un grande numero di mine che impedirono per anni l’accesso al monumento.
Il complesso è disposto lungo un asse monumentale di circa 800 metri in leggera salita verso la cima del promontorio dove si trova il santuario centrale. Il percorso, che corrisponde a un itinerario sacro, è ritmato da 5 grandi porte monumentali (gopura). Il percorso è attrezzato con scalinate e rampe, lungo le quali si incontrano cisterne per l’acqua, gallerie, sale ed edifici monastici.
Il santuario centrale, che si trova sul ciglio del promontorio, è formato da due sistemi di gallerie disposte a forma di chiostro, una tipologia che probabilmente ha influenzato, più tardi, quella del celebre tempio di Ankgor Wat, e da alcuni edifici laterali. Anche se l’accesso al santuario avviene oggi dal lato tailandese, tradizionalmente era possibile arrivare dalla pianura attraverso una lunga scalinata che supera, con oltre 3mila gradini, un dislivello di quasi 500 metri. A questa struttura, che è in condizioni di degrado, oggi è stata affiancata una scalinata in legno. Le strutture architettoniche del santuario sono realizzate principalmente in grès, pietra estratta nella zona a seguito di un’importante operazione di livellamento della montagna, che ha consentito di realizzare il percorso sacro. Alcune parti del complesso, tuttavia, sono state costruite con materiali portati dalla pianura, quali mattoni cotti, travi in legno o elementi di copertura. Grande importanza hanno anche gli apparati decorativi scultorei. Su moltissimi timpani e travi si trovano scolpiti bassorilievi con scene della mitologia induista, come per esempio il celebre mito cosmologico della burrificazione del mare di latte (il Kshirasagara manthana).
Nonostante le ingiurie del tempo e alcune manomissioni subite durante il recente conflitto, il sito ha conservato un elevato grado di autenticità e di integrità, il che ha permesso nel 2008 la sua iscrizione nella lista del Patrimonio mondiale Unesco. Tuttavia, importanti lavori di restauro e di consolidamento sono necessari per impedire ulteriori crolli delle strutture, dovuti a terremoti e alla fatiscenza dei materiali. Inoltre, un rischio importante per la conservazione del sito è rappresentato dalla tensione politica che è esistita a lungo, per il controllo della zona, tra la Cambogia e la Thailandia, il cui confine si trova a poche decine di metri di distanza dall’ingresso al monumento. Nonostante il sito sia legato indiscutibilmente alla cultura cambogiana, in epoca coloniale un accordo sui confini tra il regno del Siam e la Francia, allora potenza occupante della Cambogia, attribuì la sovranità della zona del santuario alla Thailandia. Dopo la fine della colonizzazione, la Corte di Giustizia dell’Aia accolse il ricorso della Cambogia, a cui attribuì la sovranità del sito, purtroppo senza definire con precisione i confini. Questo creò una forte tensione tra i due Paesi, al punto che, dopo l’iscrizione del sito nella lista del Patrimonio mondiale, avvennero anche scontri armati, con vittime e danni al santuario. Per fortuna oggi si è trovato un modus vivendi pacifico, ma in tutta la zona esiste una forte presenza militare, a testimonianza delle difficoltà che molti siti in zone contese incontrano anche quando sono protetti dalle convenzioni internazionali.
Francesco Bandarin è consigliere speciale dell’Unesco per il patrimonio.
Le opinioni qui espresse sono dell’autore e non impegnano l’Unesco
Francesco Bandarin, da Il Giornale dell'Arte numero 393, gennaio 2019
Il sito, con la sua struttura perfettamente leggibile e la vista grandiosa sulla pianura sottostante, è una testimonianza eccezionale della capacità della cultura Khmer di modellare un vasto territorio e di adattare l’architettura al paesaggio. La sua posizione eccezionale, sulla vetta del promontorio, lo ha protetto nel corso dei secoli da devastazioni e distruzioni. Il santuario, tuttavia, corse un grave pericolo alla fine del XX secolo, quando divenne una base militare dei Khmer rossi, che lo occuparono fino alla fine del loro potere, nel 1997, lasciando poi all’interno un grande numero di mine che impedirono per anni l’accesso al monumento.
Il complesso è disposto lungo un asse monumentale di circa 800 metri in leggera salita verso la cima del promontorio dove si trova il santuario centrale. Il percorso, che corrisponde a un itinerario sacro, è ritmato da 5 grandi porte monumentali (gopura). Il percorso è attrezzato con scalinate e rampe, lungo le quali si incontrano cisterne per l’acqua, gallerie, sale ed edifici monastici.
Il santuario centrale, che si trova sul ciglio del promontorio, è formato da due sistemi di gallerie disposte a forma di chiostro, una tipologia che probabilmente ha influenzato, più tardi, quella del celebre tempio di Ankgor Wat, e da alcuni edifici laterali. Anche se l’accesso al santuario avviene oggi dal lato tailandese, tradizionalmente era possibile arrivare dalla pianura attraverso una lunga scalinata che supera, con oltre 3mila gradini, un dislivello di quasi 500 metri. A questa struttura, che è in condizioni di degrado, oggi è stata affiancata una scalinata in legno. Le strutture architettoniche del santuario sono realizzate principalmente in grès, pietra estratta nella zona a seguito di un’importante operazione di livellamento della montagna, che ha consentito di realizzare il percorso sacro. Alcune parti del complesso, tuttavia, sono state costruite con materiali portati dalla pianura, quali mattoni cotti, travi in legno o elementi di copertura. Grande importanza hanno anche gli apparati decorativi scultorei. Su moltissimi timpani e travi si trovano scolpiti bassorilievi con scene della mitologia induista, come per esempio il celebre mito cosmologico della burrificazione del mare di latte (il Kshirasagara manthana).
Nonostante le ingiurie del tempo e alcune manomissioni subite durante il recente conflitto, il sito ha conservato un elevato grado di autenticità e di integrità, il che ha permesso nel 2008 la sua iscrizione nella lista del Patrimonio mondiale Unesco. Tuttavia, importanti lavori di restauro e di consolidamento sono necessari per impedire ulteriori crolli delle strutture, dovuti a terremoti e alla fatiscenza dei materiali. Inoltre, un rischio importante per la conservazione del sito è rappresentato dalla tensione politica che è esistita a lungo, per il controllo della zona, tra la Cambogia e la Thailandia, il cui confine si trova a poche decine di metri di distanza dall’ingresso al monumento. Nonostante il sito sia legato indiscutibilmente alla cultura cambogiana, in epoca coloniale un accordo sui confini tra il regno del Siam e la Francia, allora potenza occupante della Cambogia, attribuì la sovranità della zona del santuario alla Thailandia. Dopo la fine della colonizzazione, la Corte di Giustizia dell’Aia accolse il ricorso della Cambogia, a cui attribuì la sovranità del sito, purtroppo senza definire con precisione i confini. Questo creò una forte tensione tra i due Paesi, al punto che, dopo l’iscrizione del sito nella lista del Patrimonio mondiale, avvennero anche scontri armati, con vittime e danni al santuario. Per fortuna oggi si è trovato un modus vivendi pacifico, ma in tutta la zona esiste una forte presenza militare, a testimonianza delle difficoltà che molti siti in zone contese incontrano anche quando sono protetti dalle convenzioni internazionali.
Francesco Bandarin è consigliere speciale dell’Unesco per il patrimonio.
Le opinioni qui espresse sono dell’autore e non impegnano l’Unesco
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