Studi Indocinesi

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domenica 10 marzo 2019

L’accoglienza italiana ai boat people vietnamiti, 40 anni fa: una lezione di civiltà per il nostro tempo.


Di navi, sbarchi e approdi.

L’accoglienza italiana ai boat people vietnamiti, quarant'anni fa: una lezione di civiltà per il nostro tempo.



Giovedì 21 febbraio 2019 è stato presentato a Roma, presso il complesso del San Gallicano a Trastevere, il volume di Valerio De Cesaris Il grande sbarco. L’Italia e la scoperta dell’immigrazione (Guerini e Associati, Milano 2018) sull’arrivo in Italia, l’8 agosto 1991, di circa 18.000 albanesi, partiti da Durazzo a bordo della nave Vlora e, attraversato il canale di Otranto, giunti nel porto di Bari. La ricerca di De Cesaris, docente di Storia contemporanea all’Università per Stranieri di Perugia, percorre agilmente la vicenda approfondendo le ragioni di quell’esodo e di quello “sbarco”, le reazioni in Italia e le ripercussioni che l’evento provocò nell’opinione pubblica e nel mondo politico italiano di quegli anni. Un aspetto affrontato nel volume  è costituito dalla “scoperta” dell’immigrazione in Italia nel triennio 1989-1991, segnato dalla tragica morte a Villa Literno (Caserta) di Jerry Essan Masslo, giovane rifugiato sudafricano, il 24 agosto 1989: è a partire dall’impatto emotivo e mediatico generato da quell’evento che prenderà le mosse una riflessione politica sul fenomeno migratorio che condurrà nei giorni 4-6 giugno 1990 alla prima «Conferenza Nazionale dell’immigrazione» promossa dal vice presidente del Consiglio Claudio Martelli e alla legge che porta il suo nome.


Alla presentazione hanno preso parte in qualità di relatori Ferruccio Pastore, del «Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione», Alessandro Porro di «SOS Méditerranée» e Daniela Pompei, Docente in Scienze Sociali all’Università Roma Tre e responsabile della Comunità di Sant’Egidio per i servizi agli immigrati, rifugiati e Rom. Quest’ultima, protagonista fin dai primi anni ’80 dell’impegno a favore dei migranti e dei rifugiati in Italia, ha ricordato fra l’altro l’amicizia con Jerry E. Masslo, ospitato da Sant’Egidio dopo il suo arrivo all’aeroporto di Fiumicino ed accolto nella Scuola di lingua e cultura italiana diretta dalla Comunità nei locali annessi alla mensa per poveri in via Dandolo, nel quartiere romano di Trastevere. Chi scrive ebbe allora l’occasione di conoscere Jerry perché insegnante volontario in quella stessa scuola d’Italiano per stranieri e rifugiati, giunti in Italia perlopiù dall’Africa e dall’Asia.

Accanto al toccante intervento di Daniela Pompei, che ha fra l’altro ricostruito il ruolo giocato da Sant’Egidio anche nella vicenda dei profughi albanesi e rimarcato l’urgenza di scrivere la storia dell’immigrazione in Italia, Alessandro Porro ha ripercorso con meticolosità la vicenda della nave Aquarius, a partire dal salvataggio in mare di 629 migranti sino al rifiuto da parte delle autorità italiane e maltesi di fare attraccare la nave in un porto sicuro.

Due navi, la Vlora e l’Aquarius, accomunate dalla presenza a bordo di donne, uomini e bambini in cerca di un futuro migliore, che seppur a distanza di ventisette anni sono però, afferma De Cesaris, legate da un filo rosso, “quello di una questione immigrazione eternamente irrisolta, vissuta come un’emergenza, con toni sempre allarmistici” (Il grande sbarco, p. 22).

Proprio un paio di giorni prima, il 19 febbraio, si era conclusa la vicenda della votazione in seno alla Giunta per le elezioni e le immunità del Senato che ha respinto la richiesta di autorizzazione a procedere del tribunale di Catania contro il ministro Matteo Salvini per il caso della nave Diciotti. Il ministro dell’Interno era indagato per i reati di sequestro persona aggravato ed abuso di potere, per aver impedito per cinque giorni, dal 20 al 25 agosto, ai 177 migranti (perlopiù eritrei e somali) a bordo del pattugliatore d’altura della Guardia costiera italiana U. Diciotti di scendere dalla nave, ancorata nel porto di Catania. La provenienza dei migranti dall’Eritrea e dalla Somalia li faceva rientrare a buon diritto nella categoria dei rifugiati bisognosi di protezione internazionale e nelle condizioni di richiedere l’asilo politico. Preceduta dalla consultazione degli iscritti alla piattaforma Rousseau del Movimento Cinque Stelle, la votazione della Giunta del Senato ha visto la richiesta di rinvio a giudizio del ministro dell’Interno respinta con 16 voti contrari e 6 a favore. La decisione della Giunta andrà ratificata o meno da un voto del Senato, che dovrà pronunciarsi entro un mese dalla votazione, entro il 24 marzo. L’esito sembra scontato.

 Altre navi: il soccorso italiano ai boat people vietnamiti.

Il 26 gennaio scorso è scomparso nella sua Varese, dov’era nato 85 anni prima, Giuseppe Zamberletti, considerato il “padre fondatore” della protezione civile italiana. Politico e parlamentare democristiano dal 1968, fu più volte sottosegretario all’Interno con delega alla sicurezza e alla protezione civile. Dopo aver gestito le emergenze dei terremoti in Friuli (1976) e in Irpinia (1980), fu nominato ministro per il Coordinamento della Protezione Civile sotto il secondo governo Spadolini, incarico che ricoprì nuovamente fra il 1984 e il 1987. In seguito all’emozione e al clamore mediatico suscitati dal mancato salvataggio del piccolo Alfredo Rampi, terrà a battesimo il nuovo Dipartimento della Protezione Civile, istituito il 22 giugno 1982.

La figura di Giuseppe Zamberletti resta altresì legata alla più grande operazione di salvataggio in mare mai operata dall’Italia. Nell’estate del 1979, infatti, su delega del Primo ministro Giulio Andreotti, Zamberletti si occupò del coordinamento delle operazioni di ricerca in mare e di salvataggio da parte della Marina militare italiana di 892 boat people vietnamiti, soccorsi nelle acque del Mar Cinese meridionale e condotti felicemente in salvo in Italia nell’agosto di quell’anno.

Chi erano i boat people? Il 30 aprile 1975 l’esercito nordvietnamita entra a Saigon, mentre gli ultimi americani fuggono dalla città. Il Vietnam del Sud viene annesso alla Repubblica socialista del Viet Nam, che il 2 luglio 1976 proclama la riunificazione del Paese. La conquista del Sud da parte dei Vietcong comunisti provocherà nel triennio 1975-1978 l’esodo di circa 2.000.000 di vietnamiti (di cui 600.000 sono cattolici), che fuggono via mare, spesso su piccole imbarcazioni o vere e proprie zattere. Vengono chiamati boat people, la “gente delle barche”. Molti di loro muoiono in mare a causa delle condizioni climatiche avverse e delle tempeste del Mar Cinese meridionale, o perché attaccati e saccheggiati dai pirati. Rifiutati dalle navi di passaggio o rigettati in mare aperto una volta giunti sulle coste della Malesia o della Thailandia, moltissimi non approderanno mai in nessun porto. È stato calcolato in mezzo milione il numero di coloro che hanno perso la loro vita in mare. Altri, soprattutto i primi ad esser fuggiti, saranno accolti nei campi profughi di Hong Kong, Malesia, Thailandia, Indonesia, Filippine, o in Nuova Guinea e Australia.


Nel dicembre 1978, nel tentativo di rispondere all’emergenza umanitaria nel Sud-Est asiatico, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) convoca a Ginevra i rappresentanti di trentacinque paesi e delle organizzazioni internazionali di assistenza: l’obiettivo è quello di suscitare una maggiore generosità nell’accoglienza ai profughi vietnamiti, ai quali si sono aggiunti molti cambogiani fuggiti a causa delle atrocità del regime dei Khmer Rossi (1975-1978) e in seguito alla “liberazione” della Cambogia da parte del Vietnam, iniziata proprio nel dicembre 1978 e culminata nella presa della capitale Phnom Penh, il 7 gennaio 1979. I risultati del summit ginevrino sono deludenti: vengono raccolti 17 miliardi di lire e garantita l’apertura delle frontiere, ma solamente per 5.000 profughi.

La Chiesa si mobilita in favore dei boat people. In Italia la CEI lancia un appello e la Caritas Italiana coordina le diverse iniziative di associazioni, parrocchie e gruppi di ispirazione cristiana. Diverse missioni sono compiute da delegati delle Caritas e di altre realtà cattoliche italiane nei campi profughi di Malesia e Thailandia. Nel giugno 1979 è Giovanni Paolo II a dare respiro mondiale agli appelli lanciati dai vescovi della Malesia, Paese che ha cominciato a rifiutare il soccorso nelle proprie acque territoriali e a rigettare i profughi al largo. Al termine dell’udienza di mercoledì 20 giugno, il papa rivolge un accorato appello alla solidarietà internazionale verso “il dramma che sta accadendo nelle terre e sui mari del sud-est asiatico, e [che] coinvolge centinaia di migliaia di nostri fratelli e sorelle”.


È in questo clima che prende forma la decisione da parte del Governo italiano di intraprendere una missione umanitaria nelle acque del Mar Cinese meridionale. Tre navi della Marina Militare, gli incrociatori Andrea Doria e Vittorio Veneto con la nave da rifornimento Stromboli partono nei giorni 4 e 5 luglio 1979 dai porti di La Spezia e Taranto alla volta di Singapore, dove fanno scalo, e del Golfo del Siam. “La più bella crociera della nostra Marina”, come ebbe a definirla l’allora ministro della Difesa, Attilio Ruffini, si conclude il 20 agosto con il salvataggio di 892 profughi fra uomini, donne e bambini.


A bordo dei due incrociatori salgono anche due sacerdoti vietnamiti, P. Filippo Tran Van Hoai e P. Domenico Vu Van Thien (mentre uno studente, Domenico Nguyen Hun Phuoc, si imbarca sulla nave appoggio Stromboli) per fare da interpreti e raccogliere le richieste dei profughi. Un messaggio viene preparato e rivolto alle imbarcazioni raggiunte:

«Le navi vicine a voi sono della Marina Militare dell’Italia e sono venute per aiutarvi. Se volete, potete imbarcarvi sulle navi italiane come rifugiati politici ed essere trasportati in Italia. Attenzione, le navi vi porteranno in Italia, ma non possono portarvi in altre nazioni e non possono rimorchiare le vostre barche. Se non volete imbarcarvi sulle navi italiane potete ricevere subito cibo, acqua e infine assistenza e medici. Dite cosa volete fare e di cosa avete bisogno».

Grazie alle frequenti ricognizioni degli elicotteri, vengono individuate alcune imbarcazioni alla deriva. Il 26 luglio una prima imbarcazione carica di profughi viene raggiunta al largo delle coste malesi. Altre barche sono segnalate nei pressi di una piattaforma petrolifera della Esso. In tutto fra il 26 ed il 31 luglio la Marina compie quattro salvataggi per un numero complessivo di 907 profughi soccorsi, fra cui diverse donne incinte e 125 bambini. Alcuni dei profughi, malati o incapaci di affrontare il viaggio di ritorno, saranno fatti sbarcare per cure a Singapore e raggiungeranno l’Italia nei mesi successivi.

Le tre navi giungono infine a Venezia verso le ore 10 del 20 agosto 1979. Ad attenderle c’è una grande folla di curiosi, giornalisti, autorità locali e nazionali. Fra queste, accanto all’on. Zamberletti, il patriarca di Venezia card. Marco Cé, allora vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana, e il sindaco della città Mario Rigo.
L'arrivo a Venezia il 20 agosto 1979

Nei giorni e mesi successivi i profughi vietnamiti vengono accolti da comunità religiose, parrocchie o singole famiglie che si sono rese disponibili all’accoglienza. Diverse realtà e movimenti, fra cui il PIME, come numerosi ordini religiosi femminili e maschili offrono alloggio o impiego ai nuovi arrivati. Nuove missioni sono realizzate nei campi profughi di Malesia e Thailandia, come quello vastissimo di Khao I Dang, al confine con la Cambogia. Fra il 1978 e il 1980 più di 3.000 rifugiati vietnamiti, cambogiani e laotiani troveranno sul suolo italiano un “porto sicuro” ed un’assistenza premurosa grazie all’attività di accoglienza della Chiesa nelle sue diverse articolazioni. Alcuni di quei rifugiati, vietnamiti d’etnia khmer o cambogiani, giunsero nella seconda metà degli anni ’80 a Roma e studiarono la lingua italiana nella Scuola di lingua e cultura italiana della Comunità di Sant’Egidio, trovando lavoro nei tanti ristoranti cinesi della Capitale.

Come si è detto, in questo 2019 ricorre il 40° della spedizione della Marina italiana nei mari del Sud-Est asiatico. Allora gli “interessi nazionali” spinsero il Governo italiano a cercare la “gente delle barche” fin nelle acque del Mar della Cina. È una vicenda di cui essere orgogliosi, in un clima politico e culturale, quello dei nostri giorni, che spinge tanti a ritenere necessario respingere in mare i boat people odierni, spesso in fuga da Paesi dittatoriali come l’Eritrea o l’Afghanistan o devastati dalla guerra e dal terrorismo come la Siria. Fino ad impedire loro di scendere da una nave italiana e di trovare approdo in un porto italiano, come nel caso della Diciotti.

Molti di quei profughi indocinesi di quaranta o trentacinque anni fa, divenuti rifugiati politici in Italia, si sono poi trasferiti in altri Paesi; altri hanno invece messo radici nel nostro Paese e si sono integrati nelle realtà produttive del Nord Italia. In alcuni casi hanno creato centri d’aggregazione sociale e religiosa, cristiana e buddhista. Hanno figli italiani. Hanno stretto amicizie e sono inseriti nel tessuto sociale di piccoli e grandi centri. È una bella storia, d’accoglienza e d’integrazione, che va raccontata. 

©Fabio Tosi 
(pubblicato parzialmente su www.notizieitalianews) 


































domenica 3 marzo 2019

Thailandia: giovani cambogiani musulmani (Cham) reclutati dall'islamismo radicale?

Immigrazione illegale e jihad: allarme in Thailandia



barisan-revolusi-nasionalBangkok (AsiaNews) – Al fine di contrastare l’immigrazione illegale ed il crescente radicalismo islamico nelle province meridionali – dov’è concentrata la popolazione islamica –, il governo thai mette in atto politiche di controllo sulle ponoh, ovvero le madrasse private. Le forze di sicurezza riferiscono che alcune strutture sono utilizzate dai separatisti islamici come campi di addestramento ed ospitano, secondo le stime, centinaia di studenti cambogiani senza regolare permesso di soggiorno.
A tal proposito, l’Ufficio immigrazione (Ib) di Bangkok sta pianificando un incontro con i rappresentanti di oltre 600 scuole islamiche delle province di Yala, Pattani, Narathiwat e Songkhla. Il generale Surachate Hakparn, a capo dell’Ib, dichiara che lo scopo dell’iniziativa è “ascoltare le opinioni dei funzionari scolastici e migliorare la loro comprensione della normativa in materia di immigrazione”.
“Siamo lieti  – aggiunge – che studenti provenienti da Paesi limitrofi vengano qui per la loro educazione religiosa, perché sappiamo che la Cambogia non ha ancora scuole islamiche proprie. Non stiamo dicendo che i cambogiani siano qui per causare problemi nel nostro Paese, ma se si trattengono oltre il dovuto, la polizia deve seguire le leggi e arrestarli”.
Pacific-Security-News.-Muslim-rebels-involved-in-talks-with-the-government-say-they-want-liberation-from-Thailand.-Photo-Credit-to-AFP
Il ministero dell’Educazione ha lanciato un’indagine per registrare il numero di musulmani cambogiani che studiano nelle scuole islamiche del sud, ma i dati non sono ancora disponibili. Le scuole sono ora tenute a presentare al ministero rapporti dettagliati su ogni studente cambogiano iscritto.
Alla fine del mese scorso, 11 musulmani cambogiani di età compresa tra i 16 ei 29 anni sono stati arrestati dopo un’irruzione della polizia nella scuola di Mudrolatulfalah. Poiché il loro visto era scaduto, sono stati deportati nel Paese d’origine. La maggior parte del gruppo è entrata in Thailandia attraverso il valico di frontiera nella provincia di Sa Kaeo, mentre alcuni sono passati per quello di Songkhla. L’operazione di polizia ha avuto luogo per i sospetti sollevati dal programma di allenamento fisico condotto, di notte, nella scuola.
Citando fonti della sicurezza nazionale, il Bangkok Post riferisce che la scuola è da tempo utilizzata dai ribelli islamici come base logistica: il programma di allenamento offerto agli studenti è in realtà un addestramento alla lotta senz’armi. I gruppi armati ribelli stanno cercando di arruolare tra le loro fila giovani musulmani cambogiani. Il gruppo separatista Barisan Revolusi Nasional (Brn), ha già reclutato bambini di 12 anni, nel tentativo di costruire una nuova forza di guerriglia.
Foto Reuters e AFP
(tratto da AD Analisi Difesa, www.analisidifesa.it)

lunedì 14 gennaio 2019

Cina-Cambogia: il premier cambogiano Hun Sen in visita a Pechino dal 20 gennaio

Cina-Cambogia: premier cambogiano Hun Sen in visita a Pechino dal 20 gennaio


Pechino, 14 gen 12:00 - (Agenzia Nova) - Il primo ministro della Cambogia Samdech Techo Hun Sen si recherà in visita ufficiale in Cina dal 20 al 23 gennaio a seguito dell'invito del premier cinese Li Keqiang. Lo ha annunciato oggi il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying. L'ultima visita a Pechino del premier cambogiano Hun Sen risale allo scorso giugno ed era avvenuta per discutere lo stato delle relazioni bilaterali con alti esponenti del governo cinese. In quell'occasione, Hun Sen aveva incontrato il consigliere di Stato e ministro della Difesa cinese Wei Fenghe, cui aveva ribadito l'importanza attribuita da Phnom Penh all'amicizia tra i due paesi e la gratitudine per il sostegno della Cina allo sviluppo socioeconomico e delle capacità difensive cambogiani. Hun Sen si era profuso in elogi per i successi conseguiti dalla Cina sotto la leadership del presidente Xi Jinping.


Il primo ministro Hun Sen, criticato dalla comunità internazionale per presunte violazioni della libertà di stampa e dei diritti umani, aveva però incassato il pieno sostegno della Cina nelle elezioni generali del 29 luglio scorso, che lo hanno consacrato alla guida del paese. Pechino ha infatti contestato apertamente i paesi occidentali, esortandoli a garantire ai paesi più vulnerabili della regione “investimenti, non lezioni”. La Cina sta praticando questa dottrina con particolare convinzione proprio in Cambogia, dove sta finanziando la costruzione di vaste infrastrutture sportive che dovrebbero ospitare i Giochi del Sud-est Asiatico del 2023.

Lo stadio, dal costo approssimativo di 157 milioni di dollari e dalla capienza programmata di 55 mila posti, è il primo e più importante progetto infrastrutturale della cosiddetta “Città dell’amicizia Cambogia-Cina”: un centro che sorgerà 15 chilometri a nord della capitale Phnom Penh, in un’area semideserta, e che includerà anche centri commerciali, un campo da golf e un parco safari. I lavori di costruzione dello stadio sono iniziati alla fine del 2016, e il cantiere, che è vietato riprendere, pare occupare lavoratori cinesi. L’intero progetto è finanziato da Pechino, come dichiarato orgogliosamente dal premier Hun Sen, affermando che la sovvenzione per la realizzazione dello stadio è la più consistente mai concessa dalla Cina per un progetto infrastrutturale all’estero. Il progetto prevede anche la realizzazione di un complesso residenziale di lusso, destinato ad ospitare facoltosi cittadini cinesi.

La Cambogia è dipesa per un quarto di secolo dagli aiuti economici dell’Occidente. Negli ultimi anni, però – proprio in concomitanza con la decisa svolta autocratica del premier Hun Sen – Phnom Penh è divenuta uno dei principali recipienti di investimenti cinesi, come evidenziato da un rapporto del dipartimento di Stato Usa, che riporta dati del Consiglio per lo sviluppo della Cambogia (Cdc). Tra il 2010 e il 2016, la Cina ha investito 9 miliardi di dollari nella Cambogia, che è divenuto così uno dei principali destinatari degli aiuti economici di Pechino nel mondo, seconda soltanto alla Malesia. Nel 2016, Pechino ha operato nel paese più investimenti di quanto abbia fatto il Regno stesso, diventando così la prima fonte di capitali della Cambogia in assoluto.

La Cina si è avvicinata a Phnom Penh anche perché posta di fronte all’ostilità di Vietnam e Filippine per le dispute relative alla sovranità sul Mar Cinese Meridionale; Pechino ha scorto nella Cambogia, membro dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est Asiatico (Asean), una “leva” ideale per impedire l’approvazione di una mozione unanime di quell’organizzazione contro l’espansionismo marittimo cinese. In precedenza Pechino ha scorto la stessa opportunità nel Myanmar, sempre più isolato sul piano internazionale per le gravi violenze contro la minoranza musulmana rohingya. Alla Cambogia, la Cina ha promesso ingenti investimenti infrastrutturali, sotto “l’ombrello” dell’ambiziosa iniziativa della nuova Via della seta. In cambio del suo deciso orientamento pro-cinese, Hun Sen ha ricavato soprattutto un potente alleato politico, grazie al quale ha potuto operare la brusca stretta autoritaria culminata nello scioglimento del Cnrp, il principale partito di opposizione democratica del paese.

mercoledì 9 gennaio 2019

Preah Vihear, Cambogia

Preah Vihear, Cambogia

Un osservatore privilegiato, Francesco Bandarin (Unesco), scruta il Patrimonio mondiale

da Il Giornale dell'Arte numero 393, gennaio 2019

Bassorilievo con il mito della burrificazione del mare di latte (Kshirasagara manthana)
Mille anni fa, al tempo della massima estensione dell’Impero Khmer nel Sud-Est asiatico, i sovrani della grande città di Angkor decisero di costruire un importante santuario in una zona che per secoli era stata utilizzata da piccoli eremitaggi monastici, in cima a un promontorio roccioso che sovrasta, a 700 metri di quota, tutta la grande pianura cambogiana. Fondato nel IX secolo dal figlio del re Jayavarman II, il sito di Preah Vihear («monastero sacro» in lingua Khmer) venne gradualmente trasformato in un importante luogo di pellegrinaggio, dedicato alla divinità induista Shiva (e anche del dio Vishnu). Negli anni tra il 1005 e il 1050 d.C. il re Sûryavarman I fece costruire la parte centrale del santuario, che venne poi completato nel XII secolo da Suryavarman II.

Il sito, con la sua struttura perfettamente leggibile e la vista grandiosa sulla pianura sottostante, è una testimonianza eccezionale della capacità della cultura Khmer di modellare un vasto territorio e di adattare l’architettura al paesaggio. La sua posizione eccezionale, sulla vetta del promontorio, lo ha protetto nel corso dei secoli da devastazioni e distruzioni. Il santuario, tuttavia, corse un grave pericolo alla fine del XX secolo, quando divenne una base militare dei Khmer rossi, che lo occuparono fino alla fine del loro potere, nel 1997, lasciando poi all’interno un grande numero di mine che impedirono per anni l’accesso al monumento.

Il complesso è disposto lungo un asse monumentale di circa 800 metri in leggera salita verso la cima del promontorio dove si trova il santuario centrale. Il percorso, che corrisponde a un itinerario sacro, è ritmato da 5 grandi porte monumentali (gopura). Il percorso è attrezzato con scalinate e rampe, lungo le quali si incontrano cisterne per l’acqua, gallerie, sale ed edifici monastici.

Il santuario centrale, che si trova sul ciglio del promontorio, è formato da due sistemi di gallerie disposte a forma di chiostro, una tipologia che probabilmente ha influenzato, più tardi, quella del celebre tempio di Ankgor Wat, e da alcuni edifici laterali. Anche se l’accesso al santuario avviene oggi dal lato tailandese, tradizionalmente era possibile arrivare dalla pianura attraverso una lunga scalinata che supera, con oltre 3mila gradini, un dislivello di quasi 500 metri. A questa struttura, che è in condizioni di degrado, oggi è stata affiancata una scalinata in legno. Le strutture architettoniche del santuario sono realizzate principalmente in grès, pietra estratta nella zona a seguito di un’importante operazione di livellamento della montagna, che ha consentito di realizzare il percorso sacro. Alcune parti del complesso, tuttavia, sono state costruite con materiali portati dalla pianura, quali mattoni cotti, travi in legno o elementi di copertura. Grande importanza hanno anche gli apparati decorativi scultorei. Su moltissimi timpani e travi si trovano scolpiti bassorilievi con scene della mitologia induista, come per esempio il celebre mito cosmologico della burrificazione del mare di latte (il Kshirasagara manthana).

Nonostante le ingiurie del tempo e alcune manomissioni subite durante il recente conflitto, il sito ha conservato un elevato grado di autenticità e di integrità, il che ha permesso nel 2008 la sua iscrizione nella lista del Patrimonio mondiale Unesco. Tuttavia, importanti lavori di restauro e di consolidamento sono necessari per impedire ulteriori crolli delle strutture, dovuti a terremoti e alla fatiscenza dei materiali. Inoltre, un rischio importante per la conservazione del sito è rappresentato dalla tensione politica che è esistita a lungo, per il controllo della zona, tra la Cambogia e la Thailandia, il cui confine si trova a poche decine di metri di distanza dall’ingresso al monumento. Nonostante il sito sia legato indiscutibilmente alla cultura cambogiana, in epoca coloniale un accordo sui confini tra il regno del Siam e la Francia, allora potenza occupante della Cambogia, attribuì la sovranità della zona del santuario alla Thailandia. Dopo la fine della colonizzazione, la Corte di Giustizia dell’Aia accolse il ricorso della Cambogia, a cui attribuì la sovranità del sito, purtroppo senza definire con precisione i confini. Questo creò una forte tensione tra i due Paesi, al punto che, dopo l’iscrizione del sito nella lista del Patrimonio mondiale, avvennero anche scontri armati, con vittime e danni al santuario. Per fortuna oggi si è trovato un modus vivendi pacifico, ma in tutta la zona esiste una forte presenza militare, a testimonianza delle difficoltà che molti siti in zone contese incontrano anche quando sono protetti dalle convenzioni internazionali.

Francesco Bandarin è consigliere speciale dell’Unesco per il patrimonio.
Le opinioni qui espresse sono dell’autore e non impegnano l’Unesco
Francesco Bandarin, da Il Giornale dell'Arte numero 393, gennaio 2019

martedì 9 gennaio 2018

Dighe cinesi sul Mekong: niente pesci, comunità in ginocchio

CAMBOGIA-CINA

Lungo quasi 4.800 km, è la più grande riserva di pesca nell'entroterra e secondo solo all'Amazzonia per biodiversità. Circa 60 milioni di persone dipendono dal fiume. Costruite da Pechino sei barriere nel tratto superiore, altre 11 dighe sono in fase di progetto. Risentiti a valle gli effetti su ambiente ed economia. Phnom Penh (AsiaNews/Agenzie) – Le comunità che dipendono dal Mekong denunciano la drastica diminuzione del pesce e accusano le dighe cinesi, infrastrutture che rafforzano il controllo fisico e diplomatico di Pechino sui vicini del sud-est asiatico. Il Primo ministro cinese, Li Keqiang, è atteso domani a Phnom Penh per guidare un nuovo vertice regionale che potrebbe plasmare il futuro del fiume. Lungo quasi 4.800 km, esso è la più grande riserva di pesca nell'entroterra del mondo ed è secondo solo all'Amazzonia quanto a biodiversità. Il Mekong è fonte di sostentamento per circa 60 milioni di persone che vivono negli insediamenti lungo il suo corso, che dagli altipiani tibetani attraversa Myanmar, Laos, Thailandia, Cambogia e Vietnam, prima riversarsi nel Mar Cinese meridionale. Tuttavia, più a nord, è la Cina che controlla i flussi delle acque del Mekong. Pechino ha già conquistato il tratto superiore del fiume con sei dighe e sta investendo in più della metà delle 11 dighe pianificate più a sud. Le aziende hanno investito nell’impresa miliardi di dollari, ma finora non sono state in grado di effettuare valutazioni di impatto ambientale e sociale. Anche le imprese e le agenzie statali di Thailandia, Vietnam e Laos traggono vantaggio dai loro investimenti nei progetti idroelettrici. Interrompendo le migrazioni ed il flusso di nutrienti e sedimenti chiave per i pesci, i gruppi ambientalisti avvertono che le barriere rappresentano una grave minaccia per l’habitat naturale e per le comunità locali. Alcune di esse sono già state costrette ad abbandonare le proprie terre per consentire la costruzione delle dighe e molte altre sono a rischio di spostamento forzato a causa delle alluvioni. Con il controllo sulle sorgenti del fiume – note come Lancang – Pechino può arginare a monte la sua sezione del fiume, mentre gli impatti si fanno sentire a valle. Le autorità cinesi possono anche modulare i livelli delle acque, potente moneta di scambio mostrata nel 2016 quando la Cina ha aperto dighe sul suo suolo per aiutare il Vietnam a mitigare una grave siccità. La superpotenza regionale sta ora affermando la sua autorità attraverso il nascente forum della Cooperazione del Lancang-Mekong (Lmc), mentre compensa i suoi vicini del sud-est asiatico con investimenti e prestiti agevolati. All’incontro, che avrà luogo questa settimana in Cambogia, prenderanno parte i leader di tutti e sei i Paesi attraversati dal Mekong. Il ministero degli Esteri di Pechino pubblicizza il forum, che tratta anche questioni di sicurezza e commercio, come un modo per promuovere “prosperità economica, progresso sociale e un ambiente bellissimo”.
(Asia News, 9 gennaio 2018).

martedì 2 febbraio 2016

Mons Destombes, un protagonista della rinascita della Chiesa cambogiana (da: La Stampa, 30 gennaio 2016)

GEROLAMO FAZZINI
ROMA

Nella vicenda della Chiesa cattolica cambogiana, risorta dalle macerie dopo la tragica pagina dei Khmer rossi (1975-1979), la morte di monsignor Émile Destombes, avvenuta l’altro ieri - oggi i solenni funerali a Pnhom Penh - è destinata a diventare una data storica.
Missionario francese dei Mep, monsignor Destombes, deceduto per malattia all’età di 80 anni, è, infatti, uno dei protagonisti della rinascita della Chiesa cattolica cambogiana, che oggi conta circa 20-25mila fedeli su oltre 13 milioni di abitanti: è stato vicario apostolico di Phnom Penh dal 2001 al 2010, oltre che, in precedenza, responsabile della Caritas locale. Di più: Destombes è un’icona di quel cammino di morte e resurrezione patito dai cattolici cambogiani a cavallo degli anni Settanta. Nel 1970 i battezzati erano circa 65mila su 8 milioni di abitanti, dieci anni dopo erano ridotti a poche migliaia e completamente dispersi in tutto il territorio.
Il missionario francese, al pari dei suoi connazionali e di tutti gli stranieri, venne espulso dai Khmer rossi nel 1975. Ma fu proprio lui il primo sacerdote a rientrare nel Paese alla fine degli anni Ottanta. Di lì a poco, avuto l’ok alla riapertura di una chiesa, il 14 aprile 1990, giorno di Pasqua, padre Destombes poté celebrare la prima Messa pubblica dopo tanti anni. «Quell’evento vide riuniti circa tremila fedeli – ha raccontato all’agenzia Eglise d’Asie padre Vincent Sénéchal, anch’egli missionario Mep in Cambogia -. È restata nella memoria della Chiesa della Cambogia come la Messa della Resurrezione».
La morte ha colto Destombes, dopo che da anni era colpito da una malattia degenerativa, nella sua residenza in riva al Mekong, dove viveva con Prakot, sorella di un vescovo cambogiano, Joseph Salas, morto martire nel 1977 e del quale è stato da poco aperto il processo di beatificazione.

Nato nel 1935 in Francia, Destombes era stato ordinato sacerdote nel 1961, nelle file dei Missions Etrangères de Paris (Mep). Nel 1965 era partito per la Cambogia dove, negli anni successivi, svolse diversi incarichi: docente di filosofia al seminario minore di Phnom Penh e direttore di un ostello per studenti, sempre in capitale. Dal 1970 al 1975 padre Destombes lavorò come direttore del Comitato di aiuto per le vittime della guerra, fondato dal confratello Yves Ramousse, fino all’espulsione definitiva dalla Cambogia. Rientrato a Parigi, insegnò teologia ai seminaristi del Mep e lavorò per “Echange France-Asie”, realtà missionaria incaricata di far conoscere l’Asia e le sue Chiese ai francesi.
Riuscì a tornare a Bangkok, in Thailandia - dove riprese contatti con i rifugiati cambogiani - solo nel 1989, dopo la ritirata dei vietnamiti dalla Cambogia, e dopo aver trascorso 10 anni come missionario in Brasile. All’inizio del 1990 Destombes cominciò a rimettere piede in Cambogia, in qualità di rappresentate di Caritas internationalis. Per un intero anno fu il solo sacerdote straniero a vivere in Cambogia. Nel corso degli anni ha lavorato per la ricostruzione della comunità cristiana cambogiana. In quel periodo Destombes fu molto attivo anche nel supportare le nuove presenze missionarie dall’estero, fra cui il Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e le Missionarie della Carità di Madre Teresa, che sbarcarono in Cambogia sul finire del 1990.
Padre Toni Vendramin, pioniere della missione cambogiana del Pime, ricorda bene quel periodo: «Per parecchio tempo la Messa veniva celebrata la domenica nella residenza di padre Émile, ufficialmente rappresentante in Cambogia della Caritas Internationalis». Nell’estate 1991 padre Toni si trasferì alla Caritas, ospite di proprio di Destombes. «In mancanza d’altre strutture ecclesiali, la Caritas è il centro della comunità cristiana», annotava nel suo diario, ripreso in “Missione Cambogia. I primi 25 anni del Pime nella terra dei Khmer” (Emi 2015), curato da chi scrive.

Dalle memorie di padre Vendramin emerge chiaramente l’impegno deciso dell’allora padre Destombes per costituire una Chiesa autenticamente Khmer: «Nonostante la relativa libertà, siamo ancora in uno Stato comunista e gli stranieri, per andare fuori più di 20 chilometri dalla capitale, devono chiedere il permesso al Ministero degli Esteri – si legge in “Missione Cambogia” - . I cristiani khmer sono circa tremila, quelli conosciuti, di cui circa mille a Phnom Penh, il resto sparsi in centri dove non si può andare senza permesso, molto difficile da ottenere. Di loro si prende cura padre Destombes. Ci sono anche diverse comunità di cattolici vietnamiti, per un totale di 10-20 mila persone: di essi si prendono cura due missionari di Maryknoll. Il vescovo Ramousse e padre Émile vogliono dare la precedenza assoluta ai khmer per fare una Chiesa khmer, dato che in precedenza i vietnamiti erano la stragrande maggioranza e dominavano pesantemente la Chiesa, che per questo era considerata straniera. I Maryknoll sostengono che i cristiani vietnamiti non solo non devono essere trascurati, ma anche che potrebbero diventare il nerbo della Chiesa cambogiana».

Tornando alla biografia di Destombes, nel 1997 egli fu nominato vescovo coadiutore di Phnom Penh e, dopo le dimissioni di mons. Ramousse nel 2000, diventò vicario apostolico della capitale, che guidò dal 2001 al 2010, quando consegnò il testimone al giovane vescovo, anch’egli un Mep francese mons. Olivier Schmitthaeusler, tuttora in carica. 

lunedì 1 febbraio 2016

Cambogia: a Phnom Penh i funerali di mons. Destombes


Si sono svolti oggi a Phnom Penh, capitale della Cambogia, i funerali di mons. Emile Destombes, artefice della rinascita della piccola comunità cattolica nel Paese dopo il dramma del genocidio dei Khmer Rossi di Pol Pot. Il presule, missionario delle Missioni Estere di Parigi (Mep), si è spento il 28 gennaio scorso nella capitale cambogiana, sede del Vicariato apostolico che aveva guidato dal 2001 al 2010, dopo essere stato nel 1989 il primo missionario in assoluto a poter rientrare nel Paese dopo la grande tragedia.
Espulso dai Khmer Rossi nel 1975
Nato a Roncq, nell’arcidiocesi di Lille, in Francia, nel 1935, Destombes era arrivato in Cambogia come giovane missionario nel 1965. A Phnom Penh – ricorda la rivista del Pime “Mondo e Missione” - era stato insegnante nel seminario minore e direttore di uno studentato. Poi, dal 1970, aveva diretto il Comitato per gli aiuti alle vittime della guerra, fino alla conquista di Phnom Penh da parte dei khmer rossi, nell’aprile 1975. Espulso insieme a tutti gli altri missionari, aveva insegnato per alcuni anni a Parigi, finché, nel 1979, aveva accolto una nuova chiamata missionaria, partendo per il Brasile, dove era stato parroco per dieci anni nello Stato del Goias. Quando, però, nel 1989 le truppe vietnamite lasciarono la Cambogia, fu lui il primo sacerdote a poter rientrare in qualità di rappresentante di Caritas Internationalis per l’assistenza umanitaria.
Nel 1990 la Messa della Resurrezione
Per un anno rimase l’unico sacerdote straniero nel Paese e poté, quindi, ristabilire i contatti con alcuni dei suoi vecchi studenti. Nell’aprile 1990, poi, ricevette dal regime l’autorizzazione alla riapertura di una chiesa. Così il 14 aprile 1990, nel giorno di Pasqua, padre Destombes poté presiedere la prima Messa pubblica dopo tanti anni. “Quell’evento vide riuniti circa tremila fedeli – ha raccontato all’agenzia Eglise d’Asie padre Vincent Sénéchal, anche lui missionario dei Mep in Cambogia – ed è rimasto nella memoria della Chiesa cambogiana come la Messa della Resurrezione”.
Le spoglie inumate nella parrocchia di San Giuseppe a Phnom Penh
Nominato nel 1997 vescovo coadiutore di mons. Yves Ramousse - il vicario apostolico del periodo precedente al dramma del 1975, anche lui poi rientrato in Cambogia – ne aveva raccolto il testimone nel 2001 fino al 2010, quando gli è succeduto un altro confratello missionario dei Mep, mons. Olivier Schmitthaeusler, che ha concelebrato l’odierna Messa esequiale. Le sue spoglie sono state inumate nella parrocchia di San Giuseppe. (L.Z.)
(Da Radio Vaticana)

martedì 24 novembre 2015

ASIA/CAMBOGIA - Il Giubileo della Misericordia nel segno dei martiri e degli ultimi della società

ASIA/CAMBOGIA - Il Giubileo della Misericordia nel segno dei martiri e degli ultimi della società

Phnom Penh – “In un mondo che soffre per guerre, violenza, odio, la misericordia è il modo in cui Dio si offre per riconciliare l'umanità e perché viviamo come fratelli e sorelle, nella pace e nell'armonia. In Cambogia accoglieremo questo tempo di grazia per rinnovarci spiritualmente, nella riconciliazione con Dio e con il prossimo”: lo scrive Sua Ecc. Mons. Olivier Schmitthaeusler, Viario Apostolico di Phnom Penh, in una lettera diffusa tra tutti i fedeli e inviata dal Vescovo al’Agenzia Fides.
Nella Chiesa locale, che ha vissuto nel 2014 “l'Anno della Carità”, si aprirà il 10 dicembre ufficialmente la Porta Santa nel Centro Pastorale del Vicariato di Phnom Penh, mentre il 13 dicembre ci sarà l’inaugurazione di una speciale mostra dedicata ai martiri cambogiani, e il 1° gennaio l’apertura della Porta Santa al Santuario della Madonna del Mekong. Ogni comunità del Vicariato è invitata a compiere un pellegrinaggio per l'Anno Santo in tutti e tre questi luoghi, mentre vari eventi sono previsti “per consentire di vivere una vera conversione interiore”, nota il Vescovo.Dato l’invito del Santo Padre a prepararsi “a vivere opere di misericordia corporali e spirituali”, la lettera invita tutti i fedeli a “essere segno dell’amore di Dio per ogni uomo, in particolare con la vicinanza e la presenza con i piccoli, i poveri gli ultimi, così numerosi nella nostra società”.
Un pensiero è rivolto a tutta la nazione : “Quest'anno sia un anno di riconciliazione nei nostri cuori, nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità e nel nostro paese che sta per aprirsi la grande mercato comune dell’Asean” conclude il Vicario.

mercoledì 17 giugno 2015

L’Eglise du Cambodge ouvre le procès en béatification de 35 martyrs morts sous Pol Pot

L’Eglise du Cambodge ouvre le procès en béatification de 35 martyrs morts sous Pol Pot
Mgr. Salas e alcuni dei 35 martiri di Cambogia

Eglises d'Asie - Agence d'information des Missions Etrangères de Paris  


L’Eglise du Cambodge ouvre le procès en béatification de 35 martyrs morts sous Pol Pot


17/06/2015
Alors que le pape François vient de signer le décret ouvrant la voie à la béatification de 17 martyrs de l’Eglise du Laos, les responsables de l’Eglise catholique au Cambodge lancent le processus qui devrait aboutir à la béatification de 35 martyrs, exécutés ou morts de faim et d’épuisement sous le régime de Pol Pot et des Khmers rouges, au pouvoir entre 1975 et 1979. Si la démarche aboutit, ce sera une première pour le Cambodge, pays qui, à ce jour, ne compte pas de bienheureux et de saints reconnus par l’Eglise.
Pour Mgr Olivier Schmitthaeusler, 44 ans, vicaire apostolique de Phnom Penh, et les évêques des deux autres circonscriptions ecclésiastiques du Cambodge, c’est l’aboutissement d’une démarche entreprise il y a quinze ans, lorsqu’en l’an 2000, en réponse à l’appel du pape Jean-Paul II de faire mémoire des martyrs et de tous ceux qui avaient souffert pour leur foi au cours du XXe siècle, un mémorial dédié aux martyrs du Cambodge avait été inauguré à Taing Kauk (Tang Kok), bourgade rurale chère au cœur de la petite communauté des chrétiens de ce pays.
Le site de Taing Kauk avait été choisi parce que c’est là qu’ont vécu sous le régime communiste des chrétiens de Phnom Penh, de Battambang et de Kompong Thom. C’est là que Mgr Joseph Chhmar Salas, le premier évêque cambodgien, a été déporté avec ses parents et proches et est mort de maladie et de faim en 1977, dans une pagode transformée en hôpital, à la lisière des trois diocèses de Phnom Penh, Battambang et Kompong Cham. C’est là que la croix pectorale de Mgr Salas avait été cachée sous un nid de poule avant d’être transportée à Phnom Penh en 1979 et transmise à Mgr Emile Destombes, coadjuteur de l’évêque de Phnom Penh, lors de son ordination épiscopale en 1997.
C’est donc à Taing Kauk que le vicaire apostolique de Phnom Penh, aux côtés de Mgr Antonysamy Surairaj, préfet apostolique de Kompong Cham, et de Mgr Enrique Figaredo, préfet apostolique de Battambang, se sont rendus le 1er mai dernier pour ouvrir officiellement la phase diocésaine du procès en béatification de 35 martyrs. Mille quatre cents fidèles des trois diocèses de l’Eglise du Cambodge étaient réunis avec eux, signifiant par leur nombre l’importance que revêt pour eux cette démarche.
Eglises d’Asie, Mgr Schmitthaeusler explique que l’ouverture de la phase diocésaine du procès en béatification est en soi un aboutissement. « Pour une Eglise petite comme la nôtre et pauvre en moyens humains et matériels, un tel processus est complexe », précise-t-il, non sans ajouter que cela fait des années que, dans ce pays très jeune où la majorité de la population n’a pas connu le régime khmer rouge, le témoignage donné par les martyrs est transmis aux jeunes catéchumènes et aux jeunes baptisés.
Concrètement, c’est grâce au travail mené par Mgr Yves Ramousse, 87 ans, vicaire apostolique de Phnom Penh de 1962 à 1976 puis de 1992 à 2001, qu’une liste de 35 noms a pu être établie. Outre Mgr Joseph Chhmar Salas (1937-1977), des prêtres – dont cinq pères des Missions Etrangères de Paris –, des religieux et religieuses ainsi que des laïcs y figurent. Trois nationalités sont représentées : Cambodge, Vietnam et France.
L’actuel vicaire apostolique de Phnom Penh ajoute avoir envoyé un prêtre des Missions Etrangères de Thaïlande, en mission à Phnom Penh, étudier le droit canonique à Rome en 2012 ; ce missionnaire, le P. Paul Chatsirey Roeung, est le postulateur de la cause et suivra le dossier lorsque celui-ci sera transmis à la Congrégation pour les causes des saints, au Vatican.
Le 1er mai dernier, à Taing Kauk, Mgr Schmitthaeusler a expliqué aux catholiques rassemblés que toute cette démarche prendra très certainement des années avant d’aboutir, tant la compilation des documents relatifs aux 35 martyrs est difficile étant donné le contexte extrême où ils ont trouvé la mort. Mais il ne cache pas avoir été conforté par l’attention témoigné par le pape François envers cette cause. C’était lors des Journées asiatiques de la jeunesse en Corée du Sud ; le 15 août dernier, lors d’une rencontre avec la jeunesse catholique d’Asie, le pape avait explicitement encouragé l’Eglise du Cambodge à avancer dans cette cause et avait demandé au cardinal Angelo Amato, préfet de la Congrégation pour les causes des saints, de soutenir Mgr Schmitthaeusler dans ce travail.
A propos de ces martyrs, dans son homélie du 1er mai dernier, Mgr Schmitthaeusler déclarait : « En lisant (…) la liste de nos présumés martyrs, c’est le peuple de Dieu dans sa diversité que nous avons rencontrés. Pasteurs et serviteurs, évêques, prêtres, religieux et religieuses avec leurs frères et sœurs chrétiens ont donné ce qu’ils avaient de plus précieux : leur vie.
Pol Pot et les Khmers rouges ont pris leur biens, leur terre, leur métier, leurs églises, leurs écoles, leurs monastères. Mais pas leur vie éclairée par la foi et l’amour reçus le jour de leur baptême ! Oui, c’est ce peuple de vivant que nous célébrons aujourd’hui. C’est de ce peuple dont nous faisons partis. »
Dans une société à 95 % bouddhiste, la petite communauté catholique (autour de 22 000 fidèles) poursuit son chemin de renaissance après avoir été presque totalement anéantie par les persécutions des Khmers rouges et la guerre civile jusqu’en 1990.
(eda/ra)
Eglises d'Asie - Agence d'infomation de Missions Etrangères de Paris

martedì 16 giugno 2015

Aperto il processo diocesano di beatificazione dei martiri cambogiani - Agenzia Fides

Phnom Penh (Agenzia Fides) - La Chiesa cambogiana ha ufficialmente aperto la fase diocesana del processo di beatificazione di 35 martiri, uccisi o lasciati morire durante la persecuzione subita dalla Chiesa sotto il regime di Pol Pot e dei khmer rossi. Lo ha riferito all'Agenzia Fides p. Gustavo Adrian Benitez, PIME, Direttore nazionale delle Pontificie Opere Missionarie per la Conferenza episcopale di Laos e Cambogia. I 35 sono morti tra il 1970 ed il 1977, e sono nativi di Cambogia, Vietnam e Francia.
Il Direttore delle POM informa Fides: “Si tratta del Vescovo cambogiano Joseph Chhmar Salas e di 34 compagni, tra preti, laici, catechisti, missionari, tra i quali alcuni membri della congregazione delle Missioni Estere di Parigi (MEP)”. La celebrazione di solenne apertura del processo si è svolta all'inizio di maggio a Tangkok, villaggio nella provincia di Kompong Thom, ed è stata presieduta dal Vescovo Olivier Schmitthaeusler MEP, Vicario Apostolico di Phnom Penh, alla presenza di numerosi fedeli, sacerdoti, religiosi, missionari, in rappresentanza di tutta la Chiesa cambogiana.
“Con l'inizio del processo, è stata creata una commissione che raccoglierà tutte le testimonianze sulla morte dei 35, alcuni uccisi, altri lasciati morire di fame e di stenti” spiega p. Benitez. L'apertura del processo “è importante a livello storico, perchè aiuterà i cambogiani a ricostruire la storia personale e le loro radici” afferma il Direttore, ma “ha soprattutto valore spirituale: la Chiesa in Cambogia, annullata negli uomini e nelle strutture, ha ripreso a vivere e a crescere". "Riguardando la situazione della Chiesa cambogiana prima, durante e dopo il regime di Pol Pot, si ha la certezza che quei pochi cristiani e martiri coraggiosi hanno mantenuto accesa la luce della fede. La grazia di Dio ha agito anche durante quegli anni bui. E sul sangue di questi martiri, oggi la Chiesa rinasce” conclude p. Benitez.
Una volta conclusa la fase diocesana del processo, se l'esito dell'istruttoria sarà ritenuto positivo, la documentazione verrà inviata in Vaticano, alla Congregazione per le cause dei Santi, che ne curerà la seconda fase. (PA) (Agenzia Fides 16/6/2015)

venerdì 16 maggio 2014

Cambogia, povertà e diseguaglianze "frenano lo sviluppo del popolo, serve un cambiamento": parla mons. Figaredo, prefetto apostolico di Battambang

Cambogia, povertà e diseguaglianze "frenano lo sviluppo del popolo, serve un cambiamento"
Mons. Enrique Figaredo, Prefetto apostolico di Battambang, conferma “l’estrema povertà” nella quale vive una “fetta consistente della popolazione”. La ricchezza “non è distribuita in modo eguale”, il Paese ha bisogno di un cambiamento “pacifico”. Cresce la Chiesa locale, ma l’obiettivo è “formare un clero locale”. 

Phnom Penh (AsiaNews) - "La povertà, l'estrema povertà nella quale vive ancora una fetta troppo consistente della popolazione cambogiana" è uno dei freni principali allo sviluppo del Paese; essa comporta "risvolti concreti sulle speranze di vita della gente, sulla loro salute e sull'accesso all'istruzione". È quanto afferma mons. Enrique Figaredo Alvargonzales, Prefetto apostolico di Battambang (una delle tre circoscrizioni della Chiesa cattolica in Cambogia). Il prelato è anche vice-presidente Celac, la Conferenza episcopale di Laos e Cambogia e presidente di Caritas Cambogia. In questa veste egli partecipa alla Campagna annuale di Caritas Francia - Soccorso cattolico, in programma dal 12 al 18 maggio, durante la quale è intervenuto in qualità di relatore. In una intervista a Eglise d'Asie, mons. Figaredo spiega che la persistente povertà è causa di un "consistente flusso migratorio" che coinvolge "in particolare i giovani, che lasciano la nostra regione di Battambang", che è in linea di massima rurale, per vivere nelle grandi città. Le mete privilegiate restano Siem Reap, Sihanoukville o Phnom Penh, ma "sono al contempo molti quelli che emigrano all'estero, in Thailandia".
In questi 14 anni alla guida della prefettura apostolica, mons. Figaredo ha visto "dei miglioramenti, la crescita economica del Paese è un dato di fatto, ma la ricchezza non è distribuita in modo eguale" e "la povertà resta endemica". Fra le fasce più giovani della popolazione, racconta il prelato, il "desiderio di una vita migliore è un dato di fatto". Di recente la Cambogia è stata scossa da una serie di manifestazioni, che hanno visto scendere in piazza opposizione e classe operaia; in alcuni casi la risposta del governo è stata dura, anche se sembra prevalere un timido tentativo di dialogo. "Ciò di cui il Paese ha bisogno - continua - non è un'escalation di violenza, ma che le cose cambino davvero in maniera pacifica. In questi ultimi mesi abbiamo moltiplicato i seminari di formazione attorno a questi temi. Questa è stata anche occasione di contatti approfonditi con i buddisti, in particolare i monaci".
In un contesto frammentato, che porta ancora i segni del dramma dei Khmer rossi e del regime sanguinario che fra il 1975 e il 1979 ha causato la morte di un quarto della popolazione, uno dei principali aspetti della pastorale della Chiesa è "costruire comunità che siano come famiglie". "I legami sociali hanno molto sofferto - aggiunge il prelato - e lo sviluppo economico attuale non aiuta certo a ricostruire". Per questo i cattolici tanto nelle scuole, quanto nei centri per disabili, anziani e persone con problemi mentali come primo obiettivo "mirano sempre a ricostruire la comunità".
Dal duemila a oggi la realtà cattolica di Battambang è raddoppiata, passando da 3mila a oltre 6mila fedeli iscritti nei registri parrocchiali. Le messe sono sempre affollate, partecipano anche persone che non hanno ricevuto il battesimo, racconta il prelato, ma che sono attirate "dalla liturgia, dall'atmosfera spirituale, dalla festa, dai canti e balli". È evidente, conclude il vescovo, che i cambogiani avvertono ancora il cristianesimo "come una religione importata dall'estero" e le chiese sono animate e guidate "da personale missionario". Nel tempo l'obiettivo è formare un clero locale solido, in grado di assumersi anche la responsabilità della guida di diocesi e parrocchie. Tuttavia, almeno a Battambang "l'ambiente è più asiatico che europeo, visto che sono solo due i sacerdoti non asiatici, mentre gli altri nove provengono da Indonesia, Filippine, Corea, Thailandia e India".
Nato in Spagna il 21 settembre 1959, mons. Figaredo ha fatto il suo ingresso nella Compagnia di Gesù nel 1979 ed è stato ordinato sacerdote nel 1992. Nel 1985, durante gli anni di università, è volontario nel Jesuit Refugees Service (Jrs) e lavora al fianco dei rifugiati cambogiani in un campo oltreconfine in Thailandia. Laureato in economia, poi in teologia e filosofia, egli si trasferisce in Cambogia per aiutare i mutilati e reduci di guerra; nel 1991 collabora alla nascita della "Casa della colomba", centro di accoglienza per i bambini vittime del conflitto. Come gran parte dei cristiani cambogiani, una esigua minoranza (2%) in un Paese in larga parte buddista (93%), egli è impegnato in attività di caritativa nel contesto di una realtà caratterizzata da forti conflitti politici e sociali.


Articolo pubblicato su:
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